Ascoltarsi: dal silenzio al rumore
- frammentimmagini
- 25 giu
- Tempo di lettura: 4 min
di Giuliana Ambrosino
È il 22 giugno 2025. Sono ancora alle mie prime sveglie ad Harare. Una domenica fiacca, influenzata, con la testa pesante e il corpo che chiede tregua. Mi rigiro nel letto più a lungo del solito. Il sole mi sveglia sempre e qui non fa eccezione.
Le tende della mia nuova casetta non sono oscuranti, ma stranamente non mi pesa. Se a Bruxelles avevo girato per negozi, cercato soluzioni, pur di non far entrare nemmeno un piccolo spiraglio di luce a svegliarmi, ora mi godo il calore che il sole porta in una casa ancora troppo vuota.
“Meno comodità si hanno e meno bisogni si hanno, meno bisogni si hanno e più si è felici”, diceva Jules Verne. Questa frase ritorna spesso nella mia testa e ogni volta ne colgo un po’ di più il significato.
Mi lascio cullare dal silenzio intorno a me, disturbato solo dai rumori della natura. Sento gli alberi ondeggiare, gli uccelli cinguettare. Non ho visto molto di Harare in questi primi giorni. È una città grande, imbrunisce presto e mi dico che ci sarà tempo. Ma dai primi scorci che ho visto, sono sicura sia una città piena di una natura pronta a conquistarmi. Il giardino del mio monolocale non fa eccezione, è un’oasi di pace.
Prendo il telefono, quasi per inerzia, e apro Instagram: la mia fonte d'informazione più immediata, ormai.
“Trump ha bombardato l’Iran.” È la prima notizia che mi appare.
Sobbalzo. Mi siedo di scatto nel mio letto vuoto. È il vuoto anche dentro me.
Che succede?
Ancora una volta ci svegliamo in un mondo diverso. Mi è capitato troppo spesso negli ultimi tempi di pensare a questo la mattina al risveglio.
Un altro semi-equilibrio saltato, un’altra potenza che impone la sua forza, un’altra notte che riscrive le regole del giorno.
E io… cosa ci faccio qui?
Il mondo si scompone sotto i colpi della paura, della potenza, dell’egoismo. La cooperazione e la diplomazia falliscono, mentre io, proprio ora, sto cominciando quel percorso di cooperazione sul campo, di sviluppo locale, che desideravo da anni.
Poi faccio un passo indietro e mi dico che lavorare nella cooperazione internazionale non è solo un mestiere. È una vocazione.
Io la mia l’ho ascoltata per la prima volta a vent’anni, durante il mio primo Erasmus, quando ho capito quanto sia prezioso far dialogare i popoli, far convivere le culture. Da allora, quell’idea l’ho custodita e nutrita. Siamo cresciute insieme.
Forse la vocazione devo cercarla ancora più indietro nel tempo, quando da bambina dicevo di desiderare la pace fra i popoli. Perché sebbene fosse il pensiero innocente di una bambina, ho tenuto con me l’idea che un mondo migliore, più giusto, più pacifico, non si costruisce da solo; richiede impegno, passione, ascolto.
In questi tempi oscuri, in cui la parola "pace" torna a risuonare con un’urgenza nuova, la mia volontà testarda, forse anche un po’ ingenua, di provare a cambiare qualcosa, non si lascerà abbattere, ma si alimenterà.
E allora comincio dall’ascoltarmi. Perchè ho scelto questa strada e perchè consiglierei ancora a qualcuno di farlo, nonostante tutto? Cooperare, oggi più che mai, per me significa:
1. Illuminare i bisogni di tutti e tutte, anche quelli che il mondo preferisce non vedere. Ad Harare, dobbiamo illuminare che gli ospedali mancano di medicinali di prima necessità, le infrastrutture sono carenti e c’è bisogno di più strumenti per combattare malattie come la malaria. In Palestina, dobbiamo e dovremo illuminare, tra le altre cose, i diritti dei bambini: dall’educazione a un tetto, a una famiglia a molto di più.
2. Coltivare ideali e la volontà di lasciare dietro di me un mondo più equo. Non per illudermi, ma per non perdere la bussola. Continuiamo a farci orientare dalla passione per la giustizia, per il rispetto dei diritti umani, per la volontà di vedere un mondo più equo e sostenibile per tutti e tutte. Questo illuminerà anche le notizie più buie, che diventeranno benzina sul fuoco ardente della consapevolezza del bisogno di stare dalla parte giusta.
3. Non appiattirsi per via della mancanza di strumenti, non rassegnarsi di fronte al potere o alla violenza, ma trovare altri linguaggi, altre forme, altri modi per agire.
4. Guadagnare sguardi diversi sul mondo. Non farsi abbattere dal quotidiano, non farsi appiattire, non restare intrappolati nei nostri confini. Leggere il mondo, la storia e la realtà tramite altri occhi.
5. Imparare a relativizzare. Cosa conta davvero? Quanto pesa, nel mondo, la mia ansia quotidiana? Ogni preoccupazione è legittima, certo, ma in quale scala? Di chi? A volte penso sia solo un mio meccanismo di sopravvivenza, eppure è quello che mi tiene a galla. Mi aiuta a respirare, a scegliere con più lucidità, a guardare oltre e a resistere.
Per almeno questi cinque punti e, sono sicura, molti altri, io sento di dover continuare.
Negli ultimi mesi, con il mondo che sembra discendere verso un baratro profondo, che potrebbe trascinarci giù, io ho capito che la cooperazione non è sicuramente la risposta a tutto. Ma è la mia risposta. L’unico modo che conosco per trasformare lo sgomento in movimento, per non restare paralizzata davanti al presente.
Per far diventare l’indignazione azione.
Per non fuggire dalla complessità, ma starci dentro.
E mentre il sole esplode su Harare, io mi concedo la lentezza di questa prima domenica africana e continuo a perdermi nella riflessione sugli ideali che mi hanno portata qui.
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