Esordio: i campi rifugiati di Mtabila e Nyarugusu in Tanzania
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- 19 mag
- Tempo di lettura: 23 min
di Valeria Saggiomo*
Durante il mio ultimo anno all’Università persi mio padre.
I mesi che seguirono quella terribile perdita furono anche l’inizio di una nuova vita. Quasi presa da un turbinio di eventi che non avevo cercato, venni assunta al Consiglio Nazionale delle Ricerche come assistente di ricerca e cominciai a lavorare ad Arco Felice, dove aveva sede l’ufficio che si occupava di stimolare la cooperazione scientifica e tecnologica tra i Paesi del bacino del Mediterraneo. Avevo conosciuto il Professor Martuscelli durante breve collaborazione di assistenza congressuale che svolgevo di tanto in tanto, utilizzando la conoscenza delle lingue straniere. Dovetti trovarmi al momento giusto nel posto giusto, fatto sta che lui si interessò a me ed io mi ritrovai improvvisamente adulta, economicamente indipendente, un mese dopo la morte di mio padre.
Il Professor Martuscelli aveva una formazione scientifica in chimica dei materiali. Apparentemente burbero e sempre pensieroso, dava l’idea di concedere a chiunque non più di trenta secondi di attenzione, scaduti i quali si era persa l’occasione di presentare il proprio argomento. Se fosse veramente così non l’ho mai capito, ma con lui ho imparato l’arte della sintesi estrema, a costo di sembrare brutale. Il Professore vedeva nella ricerca uno strumento di dialogo e di cooperazione fondamentale per raggiungere gli obiettivi politici ed economici del summit di Barcellona che si era svolto nel 1995 per promuovere un partenariato Euro-Mediterraneo. Mi feci l’idea che avesse partecipato personalmente a quell’incontro, tanto era convinto della validità politica di quel processo. Sua era stata l’iniziativa di creare, all’interno dell’Istituto di Ricerca e Tecnologia delle Materie Plastiche che dirigeva, un ufficio che si occupasse di promuovere partenariati scientifici con i paesi della sponda sud del Mediterraneo ed io ero chiamata a partecipare a quel progetto.
Allora, l’Unione europea contava solo quindici stati membri e l’intuizione di guardare ai Paesi nordafricani come area di estensione del dialogo in vista di una futura “Unione del Mediterraneo” appariva un’operazione visionaria e futurista, eppure possibile. Tuttavia, a parere del Professor Martuscelli, a distanza di sei anni dall’accordo di Barcellona del 1995 gli strumenti finanziari posti in essere dall’Unione europea per la ricerca scientifica erano solo in minima parte riusciti ad allinearsi agli obiettivi fissati: i paesi del Mediterraneo non partecipavano abbastanza, non ancora e non con gli strumenti dell’Unione europea. Il Professore mi chiese di lavorare a questa sua ipotesi, valutando il peso della partecipazione dei paesi a sud del Mediterraneo nei programmi di ricerca scientifica finanziati dall’Unione Europea. Si trattava di recuperare i dati di tutti i progetti finanziati nel V Programma quadro per la ricerca scientifica e tecnologica, di verificarne i partenariati e all’interno di questi indagare la divisione dei fondi e le gerarchie nei processi decisionali. Fui inviata al Ministero per la Ricerca Scientifica a Roma per raccogliere quei dati e iniziarono lunghi mesi di analisi e elaborazione di grafici e tabelle nei quali le indicazioni del Professore furono per me preziosissime.
Sono grata al Professor Martuscelli, imparai da lui moltissimo nei tre anni trascorsi al CNR. Mi diede fiducia, mi insegnò a gestire i dati di una ricerca quantitativa, mi permise di crescere professionalmente, e anche di studiare e di cercare la mia strada.
Imparai che i dati sono come le parole, vanno letti, interpretati, compresi nei loro molteplici significati, possono servire per dimostrare un’intuizione, essere curvati e piegati alle teorie. I dati somigliano ai mattoni di terracotta: da soli, accumulati in un giardino non servono a molto, ma ordinati a formare un’architettura acquistano senso e funzionalità. Oggi vi è una iperproduzione di dati che spesso restano muti. Un buon ricercatore, invece, deve saper combinare diverse maestranze: deve saper fabbricare o procurarsi i dati, deve saper controllare che ogni singolo numero non sia fragile, ma robusto e solido, deve poi metterli in ordine uno sull’altro a formare una geometria senza sbagliare, e deve avere in mente il disegno dell’opera finita che rispecchia o contraddice l’intuizione iniziale.
Ero già impiegata al CNR quando discussi la mia tesi di Laurea sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, nell’ottobre 2001. Giusto il tempo di un brindisi con i familiari, alla sera, ed il giorno dopo ero già seduta alla mia piccola scrivania per lavorare alla ricerca che il Professore mi aveva affidato. Mi interessò la metodologia più che il tema oggetto dello studio che per me era lontano dai colori e dagli odori africani di cui mi ero innamorata durante gli anni dell’Università.
L’attacco terroristico alle Torri Gemelle a New York nel settembre 2001 ad opera di militanti del gruppo islamista Al Qaeda ebbe ripercussioni sulla fragile base di fiducia e reciprocità tra il CNR italiano e le controparti nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo che si andava creando lentamente per opera del piccolo ufficio di Napoli voluto dal Professor Martuscelli. Fu come se lo schianto di quei due aerei fosse penetrato fin dentro il cuore dell’Occidente mediterraneo. Il nostro paese si strinse al lutto statunitense e ne appoggiò le azioni di rivalsa, divenne sempre più difficile dialogare con Paesi come la Siria e l’Algeria, e creare consenso attorno al progetto Euro-Mediterraneo.
Pur immersa nella vita lavorativa del CNR, non smisi di interessarmi alla cooperazione allo sviluppo. Nel 2002, grazie ad una borsa di studio della Regione Campania ed ai permessi di lavoro concessi dal Prof. Martuscelli frequentai per un anno un corso di Perfezionamento post-laurea in Cooperazione e Sviluppo Internazionale all’Università di Padova. Il corso mi restituì la voglia di seguire i miei sogni. Partendo la mattina prima dell’alba, viaggiavo ogni settimana per essere presente alle lezioni del venerdì, poi mi fermavo a Venezia da Anna, la mia compagna di studi all’università, che nel frattempo si era laureata, o a Roma dai miei zii, per tornare a Napoli il sabato.
I treni erano lenti, il tragitto lungo ed io mi davo alla lettura di libri che in un modo o nell’altro mi riportavano in Africa. Ognuno di quei viaggi sembrava coprire una distanza infinita e trasportarmi lontano… era iniziato un graduale distacco dall’Italia, dal mio ufficio, dai miei affetti, da un legame logoro ed opprimente. Il corso fu stimolante. Molti dei docenti venivano dal mondo della cooperazione, dal Ministero degli Affari Esteri, dalle Nazioni Unite, dalle ONG, ed io sentivo dentro di me il desiderio forte di appartenere a quel mondo, pur non privo di lati oscuri. Era richiesto un elaborato finale ed io ne approfittai per partire nuovamente per l’Africa.
Ripresi il materiale della mia tesi di Laurea e decisi di approfondire il tema dell’istruzione primaria in contesti di emergenza in Africa. Nei miei lunghi viaggi in treno, avevo letto il libro di Graca Machel L’impatto dei conflitti armati sui bambini (1996). Il libro denunciava le brutalità commesse sui bambini durante i conflitti armati e richiamava il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) alla necessità di redigere programmi specifici per la protezione dei bambini anche e soprattutto in situazioni di conflitto. L’istruzione, secondo Graca Machel, era un fattore fondamentale che consentiva di ricucire brandelli di normalità in un paese in guerra, per questo motivo, insieme alla fornitura di cibo, di protezione, e di assistenza sanitaria, essa doveva essere una priorità della risposta umanitaria delle Nazioni Unite e di tutti gli attori di cooperazione. Era un concetto difficile da far passare negli anni Novanta: come poteva l’istruzione essere uno strumento per la sicurezza umana pur non essendo un settore che salva vite umane? Eppure, dalla pubblicazione del report di Graca Machel vi fu un gran fermento: iniziarono a fiorire ricerche ed indicazioni operative per gli operatori di sviluppo, come le linee guida per l’istruzione in emergenza e i relativi standard internazionali cui attenersi per assicurare la qualità degli interventi.
Graca Machel era ai miei occhi una donna incredibile: combattente per il Fronte per la Liberazione del Mozambico dal governo coloniale portoghese negli anni Settanta, all’indipendenza, nel 1975, divenne Ministro dell’istruzione fino al 1989, riuscendo ad aumentare significativamente il livello di alfabetizzazione nel suo Paese. Era stata moglie del presidente Samora Machel e poi, dopo la sua morte, del Presidente Sud Africano Nelson Mandela. Una donna determinata che era riuscita a portare avanti con grinta l’idea che l’istruzione non fosse un prodotto della democrazia, ma uno strumento per salvaguardare i diritti umani e lo sviluppo, per combattere la povertà e la discriminazione di genere.
Dopo aver letto il suo libro mi venne una gran voglia di lasciare il mio comodo ufficio e conoscere la vita dei bambini coinvolti nei conflitti armati. Avevo viaggiato diverse volte in Tanzania e mi sentivo accolta in quel paese amico, così come accolti erano i profughi che popolavano le terre al confine con il Burundi, nelle regioni di Kigoma, Kasulu, Kibondo e Ngara. Nel 2002, quando pianificavo la mia ricerca sul campo sull’istruzione in emergenza, la Tanzania ospitava 530.000 rifugiati, suddivisi in dodici campi, alcuni popolati da Burundesi, alcuni da Congolesi. Avevo bisogno del permesso del Governo tanzaniano per entrare all’interno, e di qualcuno che mi ci accompagnasse perché ai civili l’accesso era interdetto, così iniziai ad informarmi dall’Italia.
I campi erano gestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dal Fondo per l’Infanzia. Mi presentai di persona agli uffici di Roma, spiegando che intendevo studiare l’applicazione dei nuovi standard internazionali sull’istruzione in emergenza in Tanzania e per chiedere il necessario supporto logistico. Diversamente da quanto avevo previsto, non fu difficile e fui accontentata: gli uffici in Italia mi misero in contatto con gli uffici in Tanzania, a Dar es Salaam prima, e nell’entroterra del Paese poi, vicino ai campi. La disponibilità ad aiutarmi ad ottenere i permessi c’era, occorreva solo organizzare il viaggio!
Aspettai le vacanze estive e le ferie dal lavoro e partii per la Tanzania. A Dar es Salaam l’atmosfera era quella caotica degli anni scorsi, una città disordinata ma colorata, impreziosita dal mare e dal sorriso eterno dei suoi abitanti. La zona nei pressi del porto alle spalle della quale si estende la città profumava di salsedine e di bruciato e proprio lì tra la sabbia e la strada si ergevano baracche di legno che offrivano il pranzo ai lavoratori giornalieri per pochi scellini. Mi piaceva andare a mangiare lì, c’era un’aria familiare e mi sentivo accolta. Un saluto rispettoso in swahili, uno scambio rapido di convenevoli bastavano per essere adottati affettuosamente da quella comunità semplice e generosa. Questa però volta visitai una zona nuova della città, quella dove avevano sede gli uffici delle Nazioni Unite: le strade asfaltate, i muri alti a delimitare le case, il silenzio di quei grandi viali assolati e tanto verde… sembrava un altro paese. Nelle sedi di UNICEF e UNHCR intervistai alcuni funzionari e operatori di ritorno dai campi. La Tanzania dei primi anni del nuovo millennio era un paese che contava poco più di trenta milioni di abitanti che vivevano con appena 300 dollari all’anno. Nonostante la povertà diffusa, il paese riusciva ad ospitare una popolazione di mezzo milione di rifugiati, per lo più provenienti dal Burundi, dal Ruanda e dal Congo.
Le Nazioni Unite ed il Governo avevano suddiviso gli ospiti per nazionalità in dodici campi, tutti posizionati nelle aree di confine che si ingrossavano e si svuotavano a seconda del termometro politico nei paesi di origine. Solo qualche anno prima, nel 1996, in due settimane vi fu un esodo di massa dei rifugiati ruandesi dal campo di Ngara in Tanzania verso il Ruanda. Era un gruppo guidato dagli ufficiali delle Forze Armate ruandesi che avevano perpetrato il genocidio nel 1994 e che si erano poi rifugiati nella confinante Tanzania per ricostituire le fila dell’esercito epurato dalla componente Tutsi. La Tanzania, che nel 1993 aveva ospitato ad Arusha gli accordi di pace tra le fazioni Hutu e Tutsi, venne a quel punto accusata di connivenza con i génocidaires e quella che sembrava essere un’operazione puramente umanitaria di assistenza di profughi in fuga assunse un colore molto più fosco, difficile da inquadrare.
Capii che i rifugiati non erano solo un gruppo di bisognosi, che tra i civili potevano nascondersi capi politici e militari e che il campo profughi non era un luogo “depoliticizzato”, come sembrava emergere dai documenti tecnici della comunità internazionale redatti per organizzare la risposta all’emergenza umanitaria. Invece i campi erano luoghi di esilio, dove la popolazione era sotto il controllo di un’autorità non necessariamente manifesta e visibile agli occhi dell’aiuto internazionale. Ricordai le parole del prete ruandese conosciuto in Belgio durante il mio Erasmus, le voci della Radio Milles Collines che incitava l’odio e la propaganda genocidaria e immaginai che nei campi di rifugiati nel nord della Tanzania chi era stato assassino veniva assistito dalla comunità internazionale. Come era possibile tutto? Chi, tra le persone del campo era vittima e chi era carnefice? Non trovai risposte… un senso di smarrimento e di inadeguatezza cominciò a pervadermi: non ero più capace di definire categorie nette tra oppressi e oppressori, forse perché queste non potevano essere tracciate con un tratto di penna. In più, i documenti che visionai a Dar Es Salaam parlavano di popolazione rifugiata, categorizzata in donne, uomini e bambini, ognuno con i propri bisogni da soddisfare, ognuno con i propri diritti da garantire. Nessun riferimento ad alcun dato “politico”, nulla che potesse decodificare la massa indefinita che occupava le terre al confine della Tanzania.
Di fronte al bisogno - mi fu fatto notare - non c’è alcun colore da considerare, è infondo questo il primo principio umanitario del codice di condotta della Croce Rossa e della Mezza Luna Fertile in situazioni di soccorso. Suonava come un dogma, la fede nella validità dei principi umanitari sopra tutto e sopra ogni evidenza storica: chi ha fame deve essere nutrito, chi ha sete deve essere dissetato, chi è stanco deve trovare riposo, chi ha paura deve trovare conforto. Non sono mai stata incline ad abbracciare dogmi nella mia vita, neanche quello della mia religione, però inspiegabilmente accolsi con un senso di serenità quella spiegazione e mi ci abbandonai con sollievo, come chi improvvisamente trova l’uscita da un labirinto spaventoso.
Con UNHCR, scegliemmo due campi da visitare, entrambi nel distretto di Kibondo: Mtabila ospitava rifugiati burundesi giunti in Tanzania tra il 1993 ed il 1996, e Nyarugusu che ospitava rifugiati congolesi dal 1996. Dovevo a quel punto solo organizzarmi per arrivare in autonomia a Kasulu e per trovare un alloggio appena al di fuori del campo.
Andai alla stazione ferroviaria di Dar es Salaam per prendere informazioni su come arrivare a Kasulu, esattamente dall’altra parte del Paese a più di mille chilometri di distanza da Dar Es Salaam. Il treno era la soluzione più economica. Presi un biglietto di seconda classe con cuccetta e mi preparai per un viaggio di due giorni attraverso tutto il Paese, da Est ad Ovest, dalla costa all’entroterra, sulle sponde del lago Tanganyka fino a Kigoma; da lì avrei dovuto prendere un autobus locale fino a Kasulu, dove un funzionario dell’UNICEF di cui avevo il numero di telefono mi avrebbe dato un passaggio fino ai campi, con la macchina dell’ufficio locale.
Il treno partì il pomeriggio alle 18.00, in orario, lento e rumoroso lungo la linea ferrata che era stata costruita dai coloni tedeschi tra il 1905 ed il 1914. Pareva proprio che da allora i binari non fossero stati un granché rinnovati e neanche i vagoni del reno sembravano nuovi. I due giorni in viaggio passarono lentamente. Avevo da leggere, ma lo scenario che scorreva sotto i miei occhi era troppo bello per lasciarselo sfuggire. Ettari ed ettari di terra di tutte le tonalità dal bruno al giallo, un orizzonte tondo come un grande sole punteggiato di vita. Di tanto in tanto si stagliavano controluce piccoli villaggi di capanne, un fuoco acceso di cui si vedeva il fumo, e si sentivano le voci dei bambini che correvano festanti per salutare il treno ed i suoi passeggeri. Ogni tanto il treno rallentava a passo d’uomo in corrispondenza di questi villaggi dando la possibilità alle donne di avvicinarsi e vendere banane e samosa, snack a forma di triangolo ripieni di verdure o di carne. I passeggeri si affacciavano dal finestrino con il treno ancora in movimento, prendevano la merce sistemata in bustine di plastica dal cesto tenuto alto sul capo delle donne e offrivano la monetina dovuta ed un saluto cordiale di ringraziamento. Se non fosse stato per l’intraprendenza di quelle donne il mio viaggio sarebbe passato a stomaco vuoto. Il tempo era scandito dalla luce del sole e man mano che il treno si addentrava nel Paese, le ore si dilatavano, perdendo i confini, così come le percezioni di veglia e sonno si sovrapponevano, fondendosi in un’esperienza senza dimensioni di tempo e spazio. Arrivai al mattino presto del terzo giorno, mi sentivo come chi esce da un cinema dove il film, bellissimo, è durato 46 ore!
Kigoma era una cittadina graziosa, con un grande viale alberato che conduceva al lago. Mi fermai qualche giorno lì, ospite della missione del Jane Goodal Institute che aveva al suo interno un orfanotrofio sostenuto da un’amica di Elena, la mia compagna del corso di Padova. In accordo con il direttore dell’orfanotrofio, l’ultimo giorno di permanenza a Kigoma mi divertii a portare i bambini al lago e a vederli correre in acqua felici e spensierati. Fu una gioia immensa giocare a spruzzarsi e dopo offrire loro l’ambita bibita nella bottiglina di vetro, seduti insieme al chiosco del lago. Quei pochi giorni mi diedero tanta energia positiva e rinnovato entusiasmo, salutai con affetto i bambini del centro Jane Goodal e presi un dala dala, piccolo autobus locale, in direzione Kasulu.
Era questo un villaggio di poche capanne lungo la direttrice della strada sterrata che andava ai campi profughi. Quando passavano le auto delle Nazioni Unite, a tutta velocità senza rallentare, alzavano un gran polverone nell’indifferenza di tutti. Non c’era nulla a Kasulu, ad eccezione di un albergo che aveva sei stanze attorno ad un cortile quadrato, un piccolo ristorante all’aperto che offriva solo riso e pollo tra le galline che razzolavano ignare in attesa di essere messe sui carboni, e un mercato di frutta e verdura, appena sottoposto al livello della strada, sulla collina fangosa che scendeva sul versante ovest della strada. Presi una stanza all’albergo, sistemai le mie cose e mi recai al mercato per procurarmi qualcosa da mangiare. C’era un’atmosfera strana e pesante a Kasulu… la gente era diffidente, nessuno sorrideva e i miei saluti erano a stento ricambiati. Stranamente, non si vedevano bambini per strada né si sentivano le loro voci giocose. Mi domandai il perché, ma non trovai chi avesse voglia di chiacchierare. Avvertii un senso di isolamento e di pericolo: ero sola, in un luogo inospitale e sconosciuto, a tre giorni di viaggio dal primo aeroporto! quella sera rientrai prudentemente prima del buio nella mia stanza di albergo e aspettai il giorno seguente la macchina bianca e blu che mi avrebbe portata nel campo di Mtabila.
Forse per via della sensazione che avevo avuto a Kasulu la sera prima, non mi aspettavo alcuna accoglienza nel campo di Mtabila, invece vi trovai un gran raduno di persone venute a conoscermi ed una piccola festa preparata in mio onore dalle donne del campo, con cibo squisito, carne e frutta, nonostante la scarsità di viveri nel campo profughi. Mangiammo il riso con la carne e le verdure seduti in cerchio all’aperto, in modo che tutti potessero guardarsi in viso e condividere, anche con gli occhi, quel pasto speciale.
Mtabila somigliava ad una distesa vasta di terra rossa, con qualche albero alto qua e là, di cui si percepiva solo il fusto, mentre la chioma, troppo alta, sfuggiva alla vista di insieme. Tutto era dipinto di una polvere rossa, tenace e sottile. Le abitazioni erano state costruite dagli stessi rifugiati con i materiali disponibili sul posto. Poteva essere un normale villaggio africano, solo che nessuno ne poteva uscire o entrare. Un altro aspetto mi colpì. In genere il cuore del villaggio africano è il mercato, luogo di economia ma anche e soprattutto di scambi, di relazioni sociali. Il mercato dice molto delle condizioni di vita della gente del posto, può essere ricco di generi alimentari, colorato e affollato, oppure spoglio, essenziale, quasi silente nei luoghi più poveri. Ecco… il campo profughi non aveva il mercato, era un corpo privo di cuore pulsante e questo gli conferiva un aspetto irreale e un po' mostruoso, come quello di un Frankenstein.
Dopo il pranzo, fui affidata al comitato di coordinamento delle scuole, composto da un responsabile dei programmi di istruzione, un assistente, un ispettore e due formatori per gli insegnanti. Questo gruppo gestiva l’organizzazione delle scuole del campo, ne teneva sotto controllo le attività, ed era autorizzato ad avere contatti con le Nazioni Unite, con le ONG e con gli stranieri che entravano nel campo. Notai che vi era una gerarchia molto chiara nel gruppo di coordinamento, ognuno era consapevole del proprio ruolo e quando ponevo domande la persona incaricata di quel determinato settore rispondeva senza esitazione e senza scavalcare il proprio ambito di competenza. Mi fecero vedere gli uffici dove tenevano i registri, che erano compilati a mano, ma ordinati e in bella grafia. Vi si potevano trovare i dati relativi alle otto scuole primarie del campo, le iscrizioni dei bambini con indicazione di genere per ogni classe, e i risultati degli esami finali. Pur nella ristrettezza dei mezzi a disposizione, il “gruppo scuola” a Mtabila mi sembrò ben organizzato e cosciente di ciò che erano riusciti a costruire e di ciò che ancora mancava.
Il responsabile mi raccontò che la data del primo insediamento risaliva al 14 aprile 1994, con un flusso iniziale di 13.000 rifugiati. Nel novembre dello stesso anno, dopo sette mesi dall’arrivo in Tanzania, venne inaugurata la prima scuola con circa 1.500 studenti. Prima di quel risultato, non avendo avuto inizialmente appoggio dalla comunità di aiuti internazionali per il ripristino delle attività scolastiche formali, fin dai primi giorni di insediamento su iniziativa comunitaria vennero creati dei “centri per attività rivolte ai bambini”. I ruoli sociali e gli schemi di suddivisione del lavoro nella comunità di origine ripresero forma rapidamente nel nuovo contesto, seguendo, dopo un iniziale momento di disgregazione dovuto alla fuga, le reti di relazioni e le gerarchie precedenti all’esodo: coloro che in Burundi ricoprivano ruoli di leadership all’interno della comunità ripresero le loro posizioni di guida, così come il personale impegnato nel sistema di istruzione burundese ristabilì gradualmente le attività scolastiche nel campo profughi in Tanzania. Solo successivamente le agenzie di aiuto internazionale supportarono gli sforzi dei rifugiati, con finanziamenti e materiale didattico per le scuole. I finanziamenti tuttavia non potevano coprire gli stipendi del personale della scuola e così, il gruppo di coordinamento in accordo con la comunità stabilì una retta mensile che gli studenti avrebbero pagato per frequentare la scuola che, seppure modesta e non obbligatoria, avrebbe costituito un fondo per la sostenibilità della scuola. Al momento della mia visita, mi dissero, lo stipendio di un insegnante al campo era pari a circa 18 dollari al mese.
Fui poi accompagnata a visitare le otto scuole primarie del campo che ospitavano, al momento della mia visita, circa 16.000 bambini. Camminammo a piedi nel campo, tra gli alberi riuscii presto scorgere qualche costruzione. Le scuole “temporanee” erano in fango essiccato su un telaio di pertiche di legno, con il tetto paglia ed una plastica bianca che recava il logo di qualche agenzia delle Nazioni Unite. Vi erano poi le scuole “permanenti”, che erano piccoli edifici di mattoni ad un piano, con il tetto di lamiera. Quasi tutte le scuole avevano accesso ad una fonte d’acqua nelle vicinanze, mentre i servizi igienici erano presenti solo nelle scuole di mattoni, non in quelle di fango. Finsi un bisogno e mi resi conto dello stato delle toilette: un fosso profondo circa tre metri, coperto da assi forate al centro, attorniato da quattro pareti di legno. Nessun sistema di pulizia o scarico, se non un secchio, pieno per metà di acqua, da versare sulle assi e nel fosso dopo l’uso.
Non me ne stupii, era più o meno lo stesso sistema che avevo incontrato in altre scuole nelle aree rurali della Tanzania. Quello che invece mi colpì fu la dimensione delle scuole: mi parevano piccolissime! Come era possibile che sotto quelle casette buie di al massimo 80mq vi fossero alloggiati 2.000 bambini al giorno? Mi fu spiegato che le scuole erano organizzate in circa 170 classi, gestite da 233 insegnati e che non tutte le classi lavoravano allo stesso momento nella scuola, un sistema di turnazione permetteva così l’uso della scuola sia di mattina che di pomeriggio a più classi, ma non avrei avuto la fortuna di vedere il sistema in azione perché era agosto e le attività scolastiche erano sospese.
Nei giorni successivi, insieme al team di coordinamento ci soffermammo ad analizzare i dati delle scuole del campo. Secondo ciò che mi mostrarono al 2002 l’85% dei bambini in età scolare del campo era iscritto a scuola e il trend cresceva costantemente a partire dal 1997-1998. Era un valore altissimo, soprattutto se paragonato al tasso di iscrizione medio in Tanzania che al 2000 era appena il 57%, e ancora meno nelle aree in prossimità dei campi.
Osservammo poi i risultati degli esami finali, che avrebbero potuto dare indicazioni sulla qualità dell’istruzione offerta, desunta approssimativamente dalla percentuale dei promossi, e soprattutto sul numero di bambini che riusciva a completare il ciclo di istruzione primaria nel campo di Mtabila. Qui i numeri offerti descrivevano un quadro decisamente meno incoraggiante: dei 3700 bambini iscritti quell’anno alla classe prima, solo 500 sarebbero arrivati alla classe sesta e avrebbero avuto l’opportunità di sottoporsi all’esame finale. Di questi, poi, il 70% avrebbero ricevuto il diploma di completamento della scuola primaria.
Era questa una prospettiva quasi desolante che apriva due ordini di problemi: da un lato un tasso di abbandono spaventoso che si impennava tra la classe terza e la classe quarta e che cadeva in picchiata costantemente fino alla classe sesta. In aggiunta a questo, un tasso di bocciati all’esame finale che in quel campo era piuttosto basso - a dire degli insegnanti - ma che a me, che trasformavo le percentuali in bambini con un nome ed un sogno in tasca, sembrava altissimo… perché non tutti i bambini erano in grado di superare l’esame? Perché l’istruzione diventava inaccessibile a metà percorso? Volevo capire e trovare risposte alle mie domande, così chiesi di intervistare i maestri, incontrare alcuni bambini e discutere con qualche rappresentante dei genitori.
Gli incontri che ebbi con gli insegnanti ed i genitori mi offrirono uno spaccato della vita di un bambino dai 7 ai 13 anni nel campo profughi di Mtabila, che appuntai al meglio nel mio taccuino e che riporto di seguito:
All’inizio, i piccoli sono incoraggiati a frequentare la scuola. L’iscrizione e la frequenza hanno un costo, ma si tratta di una cifra molto contenuta che quasi tutti possono affrontare. Le prime classi sono molto affollate, i bambini imparano a leggere e a scrivere nella loro lingua madre, e anche senza quaderni e penne in abbondanza questa tappa è raggiunta quasi da tutti. Con grande spirito di adattamento i bambini scrivono con un bastoncino sulla sabbia e possono esercitarsi quanto vogliono. Per le altre materie, c’è in media un libro ogni venti bambini e questo inibisce fortemente l’apprendimento, anche perché il libro resta a scuola per evitare che si sciupi, non viene consegnato al piccolo studente al quale è quasi precluso un contatto diretto con la carta stampata. Nel campo esiste un solo atlante geografico per 16.000 bambini e mancano i libri di inglese. I bambini che frequentano le classi “temporanee” hanno maggiori difficoltà. Queste classi sono infatti costruite di fango e legno e sono molto fragili per via delle tarme che corrodono il legno e delle piogge ricorrenti che indeboliscono il fango. Lo scorso anno durante la stagione delle piogge, una classe temporanea è crollata sugli studenti e vi sono stati anche alcuni feriti. Terminate le piogge, la scuola non è stata giudicata riparabile perché le pareti erano troppo deboli per reggere il peso di una scala con un uomo sopra. Le classi cominciano a svuotarsi quando i bambini crescono di età. Tra la terza e la quarta classe, infatti, le bambine raggiungono la pubertà. Nel campo mancano indumenti intimi e assorbenti igienici, e diventa impossibile frequentare la scuola durante il ciclo mestruale. Così le adolescenti cominciano a perdere giorni di scuola, restano indietro con le lezioni ed alla fine abbandonano, anche perché prese dalle incombenze domestiche che devono assolvere. I genitori riportano anche di molestie sessuali che le ragazzine spesso ricevono dagli insegnanti o dagli adulti lungo la strada per la scuola, perché non indossano mutandine. In aggiunta a ciò, dalla classe quarta cambia la lingua di istruzione che diventa il francese e per molti bambini seguire le lezioni diventa difficile e finiscono per abbandonare gli studi.
Cercai conferme di queste dichiarazioni attraverso altre fonti e mi accorsi, in effetti, che tra i diplomati la quota femminile era bassissima. Chi abbandonava la scuola primaria erano in prevalenza le bambine che costituivano quasi la metà degli iscritti nei primi anni. Sarebbe bastato mantenere la lingua madre fino alla fine del percorso e provare a promuovere un progetto che affiancasse le adolescenti dagli undici anni in su, con fornitura di indumenti e accessori adeguati alle loro esigenze di crescita, per vedere innalzare il numero di studenti nelle ultime classi della scuola primaria.
Per ciò che riguardava gli insuccessi della prova finale, gli insegnanti sembravano ritenere fisiologica la perdita del 30% ed anzi, mi fecero presente con malcelato orgoglio che il campo di Mtabila vantava la percentuale più alta di diplomati e anche lo studente migliore di tutti i campi in Tanzania.
Alla fine della mia permanenza a Mtabila mi furono presentati gli studenti. Fui lasciata sola con loro e senza la supervisione del maestro, l’incontro con i bambini si trasformò in una festa. Erano felici che qualcuno volesse incontrarli e attorno a me si creò presto una piccola calca: i fratelli più grandi alzavano in braccio i più piccolini per farli partecipare, le bambine vennero con i loro catini sulla testa, eleganti e serie le più grandi, timide e ritrose le più piccole, mentre i loro coetanei facevano un gran baccano per attirare l’attenzione, i più audaci provavano a toccarmi i capelli o mi tiravano il pantalone e fuggivano via sghignazzando furbetti. Mi resi conto di essere per loro “la novità” del giorno e stetti al gioco rispondendo divertita ai loro scherzi.
Venne il momento di visitare il campo di Nyarugusu, poco più a nord di Mtabila, sulla strada per Kibondo. Il campo ospitava 53.000 rifugiati congolesi, era stato insediato in due grandi ondate, la prima nel 1996 e la seconda nel 1998. A Nyarugusu il sistema di istruzione primaria funzionava molto bene: il 95% dei bambini in età scolare era iscritto a scuola, con un numero totale di studenti di circa 16.000 bambini, suddivisi in 12 scuole di mattoni. La scuola era gratuita per tutti, in linea con gli standard internazionali e con gli obiettivi di sviluppo del millennio, e gli insegnanti, un corpo docente di 190 persone, erano stipendiati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, attraverso la ONG inglese Christian Ourtreach Relief and Devleopment (Cord). Sebbene come nel campo di Mtabila i dati delle iscrizioni mostrassero un calo significativo delle iscrizioni dalla classe prima alla sesta, con maggiore evidenza a partire dalla classe terza, la percentuale di abbandono era inferiore a quella del campo di Mtabila ed il tasso di successo all’esame finale raggiungeva il 72% dei candidati. A parziale spiegazione del successo di Nyarugusu vi era un maggiore supporto istituzionale agli sforzi della comunità. I meccanismi di ricostruzione del sistema di istruzione congolese all’interno del campo erano gli stessi raccontati a Mtabila, con una comunità di profughi che si organizza rapidamente e ricostruisce ciò che esisteva in Congo. Ma a Nyarugusu gli aiuti arrivano più rapidamente e con maggiore intensità, come dimostra l’impegno dell’UNHCR di elargire gli stipendi agli insegnanti. Un altro aspetto che ha influito positivamente sul successo del sistema di istruzione congolese è rappresentato dalla collaborazione fruttuosa tra UNHCR e il Ministero dell’Istruzione Congolese sul riconoscimento dei diplomi ottenuti nei campi in Tanzania. Gli esiti degli esami infatti erano rapidamente certificati dalle Nazioni Unite e altrettanto rapidamente riconosciuti nel paese di origine. Diversamente, i campi burundesi non godevano del supporto governativo del paese di origine, e ciò ha impedito il riconoscimento dei diplomi ottenuti nei campi per anni, con conseguente frustrazione da parte degli studenti e degli stessi insegnanti.
L’esperienza nei campi profughi burundesi e congolesi di Mtabila e Nyarugusu in Tanzania mi aveva rivelato una realtà molto diversa da quella che avevo immaginato dall’Italia, leggendo il dibattito sull’istruzione in emergenza che nasceva alla fine degli anni novanta.
In primo luogo, la realtà dei campi era lontana anni luce dagli standard internazionali che le Nazioni Unite si erano date per impostare programmi di supporto all’istruzione in emergenza, a partire dal numero di libri (minimo due per studente) che dovevano essere presenti, al rapporto tra il numero di studenti per insegnante che veniva superato del 200%. Ma l’impegno dell’aiuto internazionale e del governo del paese di origine, pur non dirimente nella prima fase che era interamente basata sull’iniziativa comunitaria, faceva la differenza sul lungo periodo, come mi pareva evidente dalla differenza dei risultati scolastici a Nyarugusu.
Ripensai all’importanza che veniva data al concetto di ownership comunitaria dei progetti di sviluppo e di emergenza nella retorica del discorso sullo sviluppo di inizio millennio. Questo discorso insisteva sulla necessità di garantire che le comunità che ricevono l’aiuto internazionale siano coinvolte e attivamente partecipi ai programmi promossi dalla comunità internazionale per garantire il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo in Africa e nel mondo, anche in condizioni di emergenza. A me sembrava che quella retorica proponesse una prospettiva decisamente euro-centrica perché oscurava l’iniziativa locale e la grande capacità dei rifugiati stessi di auto-organizzarsi che avevo visto con i miei occhi in Tanzania e che probabilmente rappresentava la realtà di molti dei programma di aiuto in emergenza che non partono per iniziativa delle ONG, delle Nazioni Unite, o della cooperazione allo sviluppo, ma per iniziativa degli stessi “beneficiari”, i quali forse non sono necessariamente vittime, che non sono nemmeno una categoria neutra come quella del rifugiato propone, che sono invece uomini e donne, bambini e bambine, ognuno con una storia, una personalità, un’ambizione, un sogno da realizzare. Per questa loro intraprendenza che andava a mio parere riconosciuta e valorizzata, il termine “beneficiari” non era adatto a descrivere i rifugiati che avevo incontrato. Essi erano invece in una relazione di partenariato con l’aiuto internazionale che si poneva al servizio delle loro iniziative. Quanto più questa relazione di partenariato tra l’aiuto internazionale, i rifugiati ed il paese di origine era virtuosa, tanto migliore erano le condizioni di vita di un popolo sradicato forzatamente dal proprio contesto.
Una seconda considerazione che mi accompagnò nel lungo viaggio di ritorno a Dar Es Salaam riguardava la differenza di opportunità di studio che esisteva tra i bambini rifugiati che vivevano nei campi profughi in Tanzania, quasi tutti iscritti alla scuola primaria, ed i bambini delle zone rurali appena fuori dai campi, quelli che vedevo correre nella savana tagliata dalla ferrovia, le cui chances di imparare a leggere e a scrivere erano meno della metà delle opportunità offerte ai coetanei profughi. In Tanzania, incredibilmente, nascere fuori dal campo significava avere meno opportunità di crescita rispetto alle cosiddette vittime del conflitto. Questo paradosso spiegava in parte l’ostilità che avevo percepito a Kasulu da parte della gente del posto: io ero lì per i rifugiati, non per loro, e come me la comunità internazionale, pronta a prestare soccorso agli stranieri, ma cieca di fronte ai bisogni dei paesi ospiti e delle loro genti.
Tornai in Italia e scrissi la mia tesi di fine corso nel mio comodo ufficio al CNR, dopo l’orario di lavoro.
Quando il corso fu terminato, nel gennaio del 2003, il Prof. Martuscelli mi propose di affrontare un concorso per strutturarmi all’interno del Dipartimento di Attività Internazionali che aveva sede a Roma. Era il genere di discorso che molti giovani ad inizio carriera non vedono l’ora di ascoltare dai propri direttori, ma invece di esserne contenta quel giorno mi sentii profondamente turbata. Fu una sensazione cupa, come quella che può provare il falco quando riceve il cappuccio per affrontare al meglio la caccia. “L’Orientale” mi aveva preparata per aprirmi al mondo, ero pronta a viaggiare e a percorrerlo in lungo ed in largo, conoscevo le lingue, la storia dell’Africa, avevo appreso gli strumenti della Cooperazione e l’idea di chiudermi in un ufficio mi sembrò in totale antitesi con quello che avevo imparato. Ai miei occhi, quella proposta era una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia.
Trovai il coraggio di parlarne con il Prof. Martuscelli. Gli esposi le mie ambizioni e le mie perplessità con lieve angoscia, come di chi sta confessando un peccato. Non volevo sembrare irriconoscente, in fondo lui aveva fatto tanto per me. Gli chiesi un consiglio, anche se in cuor mio sapevo cosa mi avrebbe reso felice. Ricordo che incrociava sempre le mani sulla scrivania quando si disponeva all’ascolto. Nel suo studio moderno, illuminato dal sole, all’ultimo piano di un grattacelo del Centro Direzionale di Napoli, il Professor Martuscelli mi guardò serio e accennando un sorriso di complicità mi disse “Valeria, come uomo di scienza ti dico: vola alto, sempre!”.
Partii per il Kenya dopo due mesi, e vi restai quattro anni.
*L'AUTRICE: Valeria Saggiomo insegna Cooperazione Internazionale allo Sviluppo all'Università l'Orientale di Napoli. Da più di dieci anni lavora in Somalia ed in Kenya per ONG internazionali, agenzie delle Nazioni Unite e per il Governo Italiano.
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