top of page

Racconti dal Kenya - Maria Virginia Bile

  • frammentimmagini
  • 9 mag
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 2 giorni fa

di Maria Virginia Bile*


Racconti del Kenya 04/09/2023

Sono le 4 e sono nella terra di mezzo. Sono in aeroporto: il luogo di transizione di posti e sentimenti, una via di fuga e di ingresso, una via che accomuna tanti visi stanchi e al tempo stesso curiosi di atterrare nella destinazione prefissata. Sono atterrata qui in Kenya esattamente 4 mesi fa. E prima di atterrare non ero ancora convinta di quello che stessi facendo. Venendo in macchina i miei nuovi amici di Nairobi mi hanno chiesto: "Le tue aspettative sono state esaudite?” Assolutamente no perché non ne avevo, ma non pensavo potesse veramente andare a finire così, non pensavo che vivere tre mesi con una comunità indigena potesse influenzarmi così tanto. Nel West Pokot, una regione settentrionale del paese, mi sono svegliata ogni mattina osservando l'alba della savana e ho attraversato corsi d'acqua in moto per raggiungere la mia postazione di lavoro. Il latte fresco era d'obbligo prima di uscire e tante tante tazze di thè soprattutto se si incrociavano donne curiose. Mi vedevano e educatamente mi volevano conoscere. C'era chi non aveva mai visto una studentessa italiana. E c'era chi come me non aveva mai visto le case tradizionali Pokot. Non avevo mai vissuto per così tanto in una fattoria. L'orologio era scandito dai bisogni delle vacche: la prima mungitura, il pascolo, il portarle al fiume, il pascolo di nuovo e poi la mungitura prima della notte. Le pecore e capre erano più mobili, venivano portate ogni giorno a pascolare lungo tutte le colline. Poi, ogni giorno c'era da lavorare i campi. Vita rurale, insomma, che piacevolmente osservavo e curiosamente provavo ad entrarci con mansioni semplici al tramonto: come far rientrare le galline al pollaio, mungere, ammirare il gregge al rientro, osservare il mais e i fagioli durante la crescita e partecipare alle conversazioni serali su come resistere alle prossime avversità climatiche. Eppure, questa semplicità mi ha colpito così tanto. Oltre al sole cocente e le piogge violente spesso non sufficienti, oltre ai colori delle piante e i loro sapori, c'erano loro: i Pokot. Un sorriso era garantito per ogni passante: poscia ni? How peaceful are you today? I Pokot sono una tribù agro-pastorale che vive al nord ovest del Kenya. Confina con l'Uganda e con il Turkana e poi con tante altre regioni che ancora non mi sono note. Uganda e Turkana mi sono rimaste impresse per i costanti conflitti. Alcune zone sono ancora molto pericolose. Ogni settimana qualcuno al confine veniva a mancare. Le tribù del Turkana e quella dei Pokot hanno una forte rivalità. Con i Karamojon, in Uganda, i conflitti stanno diminuendo e i livelli di sicurezza sono migliorati. Sono stata vicino al confine più volte. E forse è la parte del West Pokot che mi è sembrata più povera e con forte impatto ambientale causato dal sovrapascolo. Per ogni Pokot il bestiame rappresenta benessere sia fisico sia mentale. Una mucca può essere una fortissima merce di scambio: per pagare la dote del matrimonio, per comprare terreno, per avere latte, carne e sangue. I Pokot sono molto magri, le gambe lunghe e affilate e sono molto scuri. Sono costantemente baciati dal sole equatoriale. E i lineamenti sono molto fini, e poi arrivano gli occhi che sono un tuffo nell'oblio. Sono gran camminatori e fortissimi atleti. Uno dei fratellini della famiglia con cui vivevo veniva a correre con me all’alba e anche se aveva qualche anno in meno di me e in meno del fratello maggiore, ci divorava. Era velocissimo, instancabile ed era praticamente scalzo. Era abituato a scalare montagne o camminare per molti chilometri in cerca di erba per il pascolo. Solitamente i Pokot migrano in Uganda una volta finita la stagione delle piogge, molti infatti hanno la doppia nazionalità. Ora però in Uganda non ci vogliono più andare, sembra che l'incremento della popolazione abbia cambiato un bel po’ di cose. I Karamojon sono meno accoglienti e ne approfittano per rubare il bestiame. Quando attraversano il confine, i Pokot non si costruiscono neanche una capanna, dormono direttamente sotto l'albero e controllano tutto il tempo le loro vacche. In Kenya nessuno conosce i Pokot veramente. Li temono. Credono abbiano pistole e che siano molto bellicosi. Io li definirei invece piuttosto accoglienti ed orgogliosi. Sanno di essere ricchissimi, non perché hanno Kenyan shellings, bensì per la loro cultura. Tutto è così chiaro e così salutare. Le malattie si curano principalmente con le piante della savana. La mia preferita è il songowe. Poi il neem è diventato anche parte della mia quotidianità. Quando si camminava nella foresta, ce n'erano a migliaia. Me le hanno fatte assaggiare tutte e alla fine oltre ad una giornata nel verde mi sentivo di aver passato una giornata in un centro di cura. Poi, le risate che ci siamo fatti quando ci rendevamo conto che in fondo anche in Italia esistono le tribù, le comunità, e che i miei bisnonni facevano lo stesso che ora fanno i Pokot. Insomma, è un altro continente ma alla fine è abitato dalle stesse persone. Il trovare similitudini con gli indigeni ci faceva tanto ridere. Ho adorato ascoltare i loro segreti e i loro tabù. Uno dei vicini, Hillary, mi portava sempre in giro fino a quando non siamo diventati migliori amici. Ha chiesto a mio padre se potesse portargli le vacche a Napoli così che rimanessi con lui. Papà felicissimo! Solo che la mia dote è molto alta, solo pochi fortunati possono permettersi di pagarla. Una volta ero tanto triste, mi mancava casa. Hillary mi ha portato sotto un albero lontano da dove abitavo e lontano da tante altre capanne. Eravamo soli, in compagnia di tanto altro: tanti uccelli e animali selvatici e tantissime piante. Lui le riconosceva una ad una. Ad ognuna era associato un ricordo, un punto di riferimento o un punto di riposo. Allora gli chiesi quale fosse il suo ricordo più bello. E lì si aprì un mondo. Poco a poco quelle colline si animarono. Era il 2006. E Hillary aveva 12 anni. Con i suoi amici aveva deciso che era arrivato il momento di diventare uomini. Era arrivato il momento della circoncisione. Il padre amava la birra locale di mais e non prese mica sul serio quando il suo piccolo ometto gli chiese di iniziare la cerimonia. Allora Hillary corse dalla nonna, che sapeva fosse saggia e comprensiva. E la nonna rimproverò il figlio e aiutò il nipote a scappare. Scappare per arrivare lì dove eravamo in quel momento. Insieme a tutti gli amici del vicinato sono rimasti dieci giorni nella foresta in attesa che un adulto autorizzato iniziasse la cerimonia. Sono rimasti dieci giorni mangiando frutti selvatici, piantine e cacciando animali; dieci giorni aspettando quel momento così doloroso ma così virile: Il taglio. Ovviamente durante la cerimonia non è mica consentito piangere, non è consentito gridare. Si può solo rimanere lì e guardare il sangue scorrere dal membro. Per un mese si aspetta che la ferita si cicatrizzi. In questo frangente, si può solo cantare e ascoltare il silenzio dei compagni ed annuire a tutti gli insegnamenti dei maggiori. È li che nascono i tabu: l'omosessualità, le mestruazioni e la masturbazione. È li che nasce la società patriarcale: l'orgoglio di ogni uomo. È li che si impara a conquistare e poi possedere una donna. Ed è così che spesso possessione viene confuso con amore. La donna si compra. La donna ha un valore imposto dal padre. Finché il pagamento non viene effettuato, la donna è libera. Poi, diventa madre, moglie e come tale deve eseguire i compiti: cucinare, pulire, lavare, accudire. E non esiste fortuna più grande di avere una madre Pokot. Non so quanta fortuna è, invece, essere una madre Pokot. Spesso il marito vende il bestiame e poi perde tutto il guadagno bevendo. Spesso il marito rincorre altre gonne, ma allontana la propria moglie se osa avvicinarsi ad altri uomini. Spesso il marito ha più case, in ognuna una moglie ed in ognuna ha figli di cui facilmente dimentica il nome. Spesso anche le donne subiscono le mutilazioni. Un tempo era più frequente. Avevano paura che la donna potesse provare piacere e che diventasse incontrollabile. Ora la Repubblica del Kenya lo vieta e lo condanna, ma le regole nascono per essere violate. Ed è così che le donne hanno spesso complicazioni al momento del parto e anche nei rapporti sessuali. Tre mesi sono pochi per conoscere ed amare una cultura, ma sufficienti per assaggiarla. Tre mesi non sono passati velocemente. Delle volte era tutto così lento: scandito da ritmi che non hanno niente a che vedere con la tarantella napoletana. Delle volte è stato così duro vedere riflettere nella lingua degli altri il mio colore. Avrei fatto di tutto per dipingermi di nero. Purtroppo per molti esiste ancora una differenza razziale. Esistono pregiudizi ed aspettative. E per gli uomini di quel villaggio non esisteva piatto più saporito di una studentessa bianca dai capelli lunghi e lisci e gli occhi azzurri. Il desiderio costante che brillava negli occhi di uomini inebrianti da alcool o da eccitazione era avere un bambino da una mzungu. Cosa importa se la mzungu non ha voglia. Basta convincerla fino a che dalla sua bocca uscirà un OK, mettimi pure incinta?! Delle volte è stato duro interagire con i tabù e anche se ai loro occhi potevo risultare maldestra o ingenua nel non rispettare certe riservatezze, non ne hanno mai fatto una colpa o un problema ma bastava una risata perché tutto venisse compreso e superato. Ed è allora così che a cuore aperto vi racconto di un popolo dimenticato, sconosciuto ma le cui terre, tradizioni e i cui canti non possono essere così facilmente dimenticate.


*L'AUTRICE: Virginia Bile è cresciuta in un’Europa senza confini e, grazie a numerosi scambi interculturali, ha avuto l’opportunità di immergersi completamente in tradizioni lontane e affascinanti. Oggi parla cinque lingue, oltre a diversi dialetti locali o indigeni. Da sempre appassionata di pallavolo, ha partecipato al campionato di Serie C italiana e ha poi portato questa disciplina sportiva nelle scuole del Malawi e del Kenya, insegnandola e praticandola con i ragazzi la sera, dopo il lavoro nei campi. Ama profondamente il mare, soprattutto quello invernale. Di formazione è agronoma e si occupa di sviluppo rurale e gestione delle risorse naturali, in particolare acqua e suolo. Attualmente fa parte del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, nella maestosa Reggia di Portici, dove è dottoranda nella sezione di Idraulica. Al primo anno di dottorato, studia i processi di degradazione che interessano le regioni aride del Kenya. Per contatti: mariavirginia.bile@unina.it.


Maria Virginia Bile
Maria Virginia Bile


Коментарі


bottom of page